Il “mondo dei sogni” di Robert Plant riappare nei cieli della musica con un lavoro memorabile che ancora una volta arde di sincera passione e brilla di intensità presente. Se da un lato è normale associare il suo nome ai Led Zeppelin - una tra le più grandi leggende che il rock abbia mai conosciuto e a cui Plant diede non “soltanto” la voce ma anche molto dell’immaginario epico e dell’energia primordiale che vi ruota attorno -, da un altro, quando ciò viene messo troppo in rilievo, non si tiene forse nel dovuto conto la strada percorsa con le sue sole forze attraverso 40 anni (comprendendo le incisioni soliste pre-Zeppelin): un cammino corporeo e spirituale tutt’ora in atto che copre quasi 4 volte il tempo trascorso nel “Dirigibile”.

Questo “spazio”, vissuto passo dopo passo con piena coscienza e volontà, coltivando interessi, ricercando vibrazioni particolari da fondere con il proprio canto, da sempre affascinato dal blues, dalle tradizioni etniche, dalla natura sovrana, dalle vaste lande e i deserti di qualsiasi latitudine, è quanto di più intimo e vero appartenga al cantante, pertanto merita tutta l’attenzione. Va inoltre precisato che tale produzione non costituisce nemmeno una “nicchia” in senso stretto, bensì un repertorio dal nutrito seguito di appassionati, capace in più occasioni di raggiungere le zone alte della classifica con singoli e LP e di fare qua e là incetta di Grammy Award e ulteriori riconoscimenti. Oggi con Carry Fire, 11° album di studio della discografia solista - senza contare quindi le produzioni in duo con Jimmy Page, quella con Alison Krauss e il progetto Honeydrippers -, il vocalist crea la sintesi perfetta di suono e di scrittura degli ultimi 15 anni di viaggio musicale.

Se già nell’ottimo Fate Of Nations (1993) – così come nella collaborazione con Page dei Novanta - si intravedeva il desiderio di tessere atmosfere acustiche con trame di fili provenienti da culture e luoghi distantissimi e di recuperare gemme sparse del folk (e non solo) per farle proprie, è infatti Dreamland (2002) a rappresentare il primo capitolo ufficiale del nuovo corso: qui viene abbracciato con decisione un particolare tipo di “richiamo” che, più che nell’aria da molto tempo, era qualcosa di interiore da sempre e di strettamente connesso quindi con la forza interpretativa di Plant.

La band stessa di Dreamland, gli Strange Sensation, racchiude in termini sonori una parte importante (il chitarrista Justin Adams e il tasterista John Baggott) dell’odierna formazione conosciuta come The Sensational Space Shifters, la quale vide il battesimo in Lullaby and the Ceaseless Roar (2014), ma che in realtà, eccezion fatta per il batterista Dave Smith, era già stata assoldata quasi per intero all’epoca di Mighty ReArranger (2005), sempre sotto l’insegna Strange Sensation nonostante alcuni cambi e aggiunte alla line-up. Un gruppo insomma che sa bene come vestire il mondo di Robert Plant e che oggi appare più che mai affiatato, anche nel contributo alla scrittura dei brani. Gli altri membri non ancora citati sono: Liam “Skin” Tyson (chitarra) e Billy Fuller (basso).

Carry Fire è un lavoro che riesce a far convivere in totale armonia folk celtico, alt-country, roots rock, ritmi africani, sinuosità mediorientali, canti nomadi e “frequenze” dubstep: il suo è un tessuto pregiatissimo, dalla maglia fitta ma alquanto morbida; tutto è perfettamente distinguibile eppure s’impone la sensazione di un “suono unico”. È in questo paesaggio sonoro, una sorta di “Pangea” geografica e culturale, che Plant forgia il proprio canto secondo quel mood inimitabile, da “mago degli elementi”: soffiando come una brezza, accendendosi come un lampo, fluendo come l’acqua, scoppiando come un tuono.

La scaletta non fallisce un colpo, dall’energia iniziale di The May Queen, singolo di lancio dell’album che chiama subito in ballo il genere definito “Americana” per poi declinarlo verso la sponda opposta dell’Atlantico, all’intimità della conclusiva Heaven Sent, sviluppata su riverberi elettrici e pochi altri suoni in un clima dilatato, tra bagliori e crepuscolo. Nel mezzo, di tutto: dal riff ipnotico di New World… e una melodia da cui non ci si staccherebbe più, intarsiata a dovere da fraseggi blues di chitarra, a Season’s Song, ballad intimista che muove dall’acustica e dal folk celtico come ispirazione principale; dal lento ammaliante di Dance With You Tonight che come una marea gioca con dinamiche vocali e strumentali misurate su strofa e ritornello - per infilare poi a sorpresa una coda su tutt’altro registro -, all’indole blues di Carving Up the World Again… A Wall and Not a Fence, una sferzata elegante i cui riferimenti politici sembrerebbero espliciti; dall’atmosfera commuovente e dissipata di A Way with Words, coi suoi lunghi accordi di pianoforte su cui Plant costruisce un paesaggio notturno da brividi, alla world music dal sapore mediorientale della title track, che sfoggia un refrain fascinoso e implacabile; dal rock and roll di Bones of Saints, secondo singolo, che indica una “nuova maniera” e allo stesso modo onora gli aspetti più classici del genere, a un pezzo (felicemente) straniante come Keep it Hid, che ondeggia fra trip hop e soul, trovando lo spazio per un intermezzo di percussioni “tribale”.

Si giunge dunque al terzo singolo, nonché unica cover dell’album, Bluebirds Over the Mountain, che sfoggia fra l’altro un’ospite quale Chrissie Hynde (cantante e leader dei Pretenders): il brano, un pop di classe divenuto noto nella versione dei Beach Boys, vede al principio un arrangiamento “sbilanciato” sull’elettronica, trattenuto in seguito in un seducente equilibrio/bilico dagli altri ospiti presenti, il batterista Richard Ashton, il violoncellista Rhedi Hasa e il suonatore di viola ed esponente del nuovo folk inglese Seth Lakeman, oltre che dai vocalizzi “meticci” di Plant. All’album seguirà un tour nel 2018: non perdetevi né l’uno né l’altro.