A capo dei Thin Lizzy Phil Lynott è stato indubbiamente uno dei personaggi più carismatici e influenti del rock, acclamato dal pubblico, dai colleghi e dalle successive generazioni di musicisti che in lui hanno trovato un esempio di originalità, intelligenza e talento trasversale a cui ispirarsi: ancora oggi.

Agli inizi, ben prima del grande successo, i Deep Purple se ne accorsero e cercarono di accaparraselo, se la sua visione e la sua personalità fossero state disposte a scendere a patti: il tutto si risolse in qualche prova in studio dopodiché, amichevolmente, ognuno andò per la propria strada. Una miscela di creatività, tecnica e umanità destinata a lasciare il segno. Anche la critica si levò il cappello di fronte alla sorprendente combinazione tra “hard & heavy”, blues, folk celtico e testi che guardavano “ai margini” in un misto di poesia e durezza: un maglio sonoro dritto allo stomaco, imbevuto di una sensibilità e una profondità di pensiero fuori dal comune. E Lynott ne era l’autore principale, oltre che il volto e la voce.

Figlio di madre irlandese e padre guyanese (il quale lo abbandonò a poche settimane dalla nascita), il piccolo Philip fu cresciuto dai nonni in una Dublino non troppo accomodante verso il colore della sua pelle e la complicata situazione famigliare. Non che sia stato vittima di episodi violenti, almeno fisicamente, però il silente distacco della “società tradizionale” era un peso costante, impossibile da sopportare e tale da provocare in lui un vortice di rabbia e solitudine: quello stesso vortice che da un lato riuscì a trasformare in arte e in esito professionale e dall’altro lo portò all’autodistruzione.

Se comunque la storia dei Thin Lizzy, giustamente, continua a venire celebrata attraverso i loro successi (brani immortali come Whisky In The Jar, The Boys Are Back In Town, Still In Love With You …) e ad album fondamentali della musica (Jailbreak, 1976, e Live And Dangerous, 1978, per esempio), la carriera solista di Phil Lynott, un vero scrigno e un libro aperto sul suo vissuto, e pure la direzione in cui stava impostando il futuro, viene di rado ricordata. Non che le vendite all’epoca non siano state buone, semplicemente una volta mancato Lynott, in quel tragico inizio d’anno del 1986, a soli 36 anni, l’epopea Lizzy era ancora l’immaginario principale, l’identità e l’eredità artistica nelle quali cercare consolazione per i fan di tutto il mondo.

Detto ciò, il musicista ha pubblicato due album solisti e una manciata di singoli, alcuni in collaborazione col guitar hero e amico Gary Moore, che completano il quadro del suo genio e non possono essere trascurati. Il primo disco, Solo In Soho (1980), già mette giù le carte in maniera chiara in quanto a libertà di azione, varietà di generi e liriche. Non è qualcosa da leggere in “opposizione” ai TL, dal momento poi che tutti (o quasi) i membri del gruppo, da quelli passati alle nuove leve (in compagnia di diversi nomi illustri), sono ospiti del progetto, ma più una volontà di condividere con i compagni di una vita, senza dover rendere conto a nessuno delle scelte effettuate, un differente estro creativo. Il momento esplicitamente più “Lizzy” è forse proprio l’apertura della splendida Dear Miss Lonely Hearts, sennonché, in breve, atmosfere anche distanti si succedono in modo improvviso e naturale, mescolandosi, confondendosi, rivelando possibilità inedite.

C’è la dedica a Elvis Presley di King’s Call che la chitarra di Mark Knopfler tinge di Dire Straits e “sogno americano” (proprio i Dire Straits nel 1991 pubblicheranno il loro personale brano tributo Calling Elvis) seguita dalla dolcissima ninna nanna A Child’s Lullaby che ci mostra il padre premuroso che Lynott avrebbe sempre voluto essere; la title track è un reggae con un’aggressività “latente” di punk-rock (come la finale Talk In ’79), mentre Yellow Pearl è la hit firmata insieme a Midge Ure che nella successiva versione remixata e inclusa in The Philip Lynott Album (1982) sarebbe diventata la sigla (per anni) della trasmissione Top Of The Pops: un esempio di pop con inserti di elettronica e istinto new wave, cadenzato dalla vocalità inconfondibile del cantante-bassista, con quel tipico “swing” dal sapore esotico e il sillabato morbido e preciso.

Non manca nulla: il rock and roll tirato (e non così prevedibile nella struttura) di Ode To A Black Man, dove sotto metafore varie si parla di dipendenze, il pop cristallino di Girls e di Tattoo (Giving It All Up For Love), irresistibile il ritornello, e i ritmi latini di Jamaican Rum. Il secondo lavoro discografico solista, che peraltro condivide molti degli ospiti del primo, si muove in un clima di grande raffinatezza sonora più orientato alla ballad, pur chiamando in causa tanti generi diversi. Cathleen è una bellissima dedica alla figlia che vede l’armonica di Huey Lewis e potrebbe essere una hit di Stevie Wonder; Fatalistic Attitude è un diario che racchiude ombre e storie di disperazione, cantato con dolcezza e rassegnazione su un letto di tastiere; Ode To Liberty (The Protest Song) è un altro eccelso frutto con la chitarra di Knopfler; The Man’s a Fool e Old Town hanno classe e mordente, un pop d’arte à la McCartney; l’elettronica la si trova in maggior peso su Yellow Pearl e Little Bit Of Water; Mel Collins suona un sax da brividi nella commuovente Growing Up; Together è un febbricitante funky; Gino e Don’t Talk About Me Baby sperimentano ma sono più nelle corde del rock.

Per avere una veduta d’insieme, unitamente a B-Sides, rarità, collaborazioni e all’ultimo singolo, Nineteen, inciso poco prima della morte, si raccomanda caldamente la raccolta Yellow Pearl (2010). Un volto del “poeta-guerriero” del rock da conoscere assolutamente.