C’era una volta una grande montagna con un cuore scuro divorato da solchi e cunicoli nascosti. Sulla sua vetta sbucava un’ampia caverna che dava sul vuoto, nel cielo. In quella caverna vivevano Martin, suo padre, sua madre, i suoi fratelli e le sue sorelle.

Il ragazzo passava ore e ore rannicchiato nelle pieghe esterne della roccia: ammirava la distesa d’azzurro, così vicina ma lontanissima e vuota. Fantasticava con gli occhi sul sole, sui fulmini o sulle stelle. Allora sentiva il suo sguardo scivolare verso il basso, senza che potesse fermarlo, e temeva, ancor prima di sentirla, la forza magnetica che sempre lo spingeva verso l’abisso. Il lamento di Martin era un sogno silenzioso sull’orlo del burrone.

Non aveva mai messo piede giù dalla montagna. Solo suo padre, uomo intrepido e super muscoloso, scendeva a valle per cacciare, vendere pelli di animali e rifornirsi di viveri. Martin nel frattempo conciava le pelli nella cima della montagna con tutti gli altri. Era soffocante la vita in quegli anfratti umidi e bui, i giorni scivolavano come capelli stanchi da una testa unta.

Come il padre facesse a scendere in paese sembrava nessuno lo sapesse. E se qualcuno lo sapeva se ne stava ben zitto. I genitori vietavano ai figli qualsiasi tentativo di raggiungere la valle. Era troppo pericoloso, dicevano: la montagna li avrebbe inghiottiti, e se fossero sfuggiti alla montagna il mondo stesso li avrebbe divorati. Martin si interrogava spesso sul significato delle loro parole.

Una sera, perdendosi con lo sguardo nel cielo plumbeo, il ragazzo fu folgorato da un uccello rosso: volava come una fiamma in guerra, si tendeva contro il vento. Gli occhi dell’uccello erano grandi e parlavano come mossi da pensieri umani. Il cuore di Martin sembrava quello di un innamorato, batteva fortissimo. Da allora ogni mattina cospargeva le rocce di briciole, e appena poteva scandagliava il cielo con i suoi grandi occhi a palla alla ricerca di una macchia, una linea, un puntino di rosso. Aveva così tanto tempo da perdere che non perse mai la speranza, così, in una mattina grigia, lo rivide. L’uccello volava verso la caverna, sempre più vicino, ma finì per sterzare e sparire lontano. Martin non poteva inseguirlo.

La mattina dopo, quando il ragazzo si svegliò, le briciole erano sparite. Martin sorrise in preda alla speranza. Sparse altre mollichine, e di nuovo non le trovò al sorgere del sole. I giorni passavano, e Martin decise che era giunto il momento di ammirare da vicino quella bellissima creatura. Così si nascose e aspettò, appiattito in una rientranza oscura, trattenendo il respiro, con il terrore di muoversi, una strana sacralità nell’aria. I minuti si facevano ore in compagnia della Luna e del vento gelido. Improvvisamente il ragazzo sentì un rumore provenire da dietro le sue spalle: era sua madre. Superò Martin e si sporse verso l’esterno, con la mano spinse le briciole nel vuoto.

Qualche notte prima la madre, che sempre osservava suo figlio, aveva spiato l’enorme uccello rosso mangiare le briciole. Dentro di sé aveva sentito che la cosa giusta da fare era allontanare in silenzio quella creatura dell’aria.

L’esistere si faceva terribile. La notte Martin si stendeva nel suo giaciglio con il cuore in tumulto e il desiderio ardente di prendere la propria vita tra le mani e fuggire. Non riusciva a dormire, nel buio si torturava tra pensieri che oscillavano senza tregua dalla più dolce speranza alla più scura vendetta.

In una di quelle notti senza pace Martin sentì dei rumori provenire dall’anfratto più profondo della caverna: silenziosamente scivolò verso il suono. Nell’oscurità, tendendo occhi e orecchie, distinse suo padre spostare un grosso masso e sparire nel nulla. Erano anni che la montagna lo sentiva strisciare come un verme nelle sue viscere, farsi strada nel suo cuore grondante d’acqua, rotolare fuori dal suo vecchio corpo, a valle.

Martin programmò di inabissarsi nella montagna e andare via, ma ogni giorno il suo proposito diventava più pallido, lontano, insensato. Capitava che la notte sognasse l’uccello rosso nel cielo azzurro, con una malinconia leggera. La mattina si svegliava col desiderio di volare.

Passarono i giorni. Una mattina suo padre, prendendo Martin in disparte in un angolo oscuro, gli sussurrò con tono grave: “È giunto il momento per te di diventare uomo e scendere nel mondo di sotto: ti mostrerò i segreti del mio potere.”

“Io so come scendere, rispose Martin.” Corse verso il buco nel cielo e si tuffò nell’azzurro. Chi non ha mai toccato terra può solo volare.