Che cosa è un’immagine? Forse occorre partire dalla comprensione di questo termine che a prima vista tutti pensano di saper spiegare, ma che alla prova dei fatti appare invece assai sfuggente se ci si allontana dai confortanti significati che nei dizionari si accompagnano alla sua definizione.

L’immagine si definisce come forma esteriore degli oggetti corporei, in quanto viene percepita attraverso il senso della vista, o si riflette – come realmente è, o variamente alterata – in uno specchio, nell’acqua e simili o rimane impressa in una lastra o pellicola o carta fotografica. Più in generale l’aspetto corporeo, la forma, la figura di una persona o di una cosa; specialmente in quanto l’aspetto di un determinato oggetto viene riprodotto per somiglianza in altri oggetti, quindi modello somiglianza o ancopra rappresentazione con mezzi artistici della forma esteriore di cosa reale o fittizia; quindi termine generico per indicare un quadro, un ritratto, una statua. Talora si contrappone più direttamente alla figura reale e consistente, e significa apparenza, parvenza. Molteplici i riferimenti anche letterari e scientifici che si affiancano a queste indicazioni generali tratte dal dizionario.

E allora, che cos’è un’immagine. Come si vede al di là dei confortevoli appoggi dottrinali, è qualcosa della quale non possiamo fare a meno – anche come accade nella tradizione islamica del rifiuto dell’immagine – ma che presenta tante e tali caratteristiche uniche da essere sempre un unicum. Nella civiltà dell’immagine come si dice oggi, nella quale ognuno attraverso i mezzi social e tecnologici vuole trasmettere appunto l’immagine di sé, del proprio modo di vedere la vita e di viverla; nella quale ormai è inflazionato ogni tentativo di originalità e di professionalità, dove tutti sembrano poter fare tutto, emerge prepotente la forza di quella immagine che per così dire fa storia, segna il cammino dell’uomo, la traccia che l’umanità lascerà nel futuro qualunque esso sia. Questa a cui facciamo riferimento è l’immagine per eccellenza. Non frutto narcisistico e autoreferenziale e per ciò stesso destinato a breve vita e a piccole fiammate momentanee di notorietà. E’ il segno che incide la nostra immaginazione, è il valore che traiamo dal guardarla, è la documentazione spesso irripetibile di un momento certo importante ma che soltano a posteriori possiamo dedurre che abbia fatto storia.

Tanti i fotografi e tanti i talenti nella storia di quest’affascinante branca, i protagonisti che hanno fatto dell’immagine un valore da tramandare e da non dimenticare. Un valore che spesso si è tramutato anche in arte, elevando ancor di più il senso e il significato dell’immagine. Alla base di tutto però vi è la capacità, la intuizione, la caparbietà ed anche quella casualità sapendo cogliere la quale si possono realizzare pezzi di storia o mattoncini che contribuiscono a scriverla e soprattutto a capirla.

E qui emerge allora il senso di una passione, di una professione instancabile ed inesauribile. E sono poche le persone che hanno assistito come si dice in presenza a così tanti fatti di cronaca italiana e internazionale avvenuti negli ultimi cinquant’anni di storia, riprendendoli con la telecamera o raccontandoli con la fotografia. A volte seguendo il proprio lavoro, a volte intuendo l’importanza di un avvenimento, di un momento. Sicuramente di questa schiera fa parte Claudio Speranza, marinaio prestato alla telecamera, grande telecinereporter della Rai. Un instancabile viaggiatore che ha vissuto e ripreso gli avvenimenti più significativi degli ultimi cinquant’anni: terrorismo italiano ed estero, contestazioni studentesche, stragi, delitti di mafia, crollo dell’Unione Sovietica, attentato alle torri gemelle e numerose zone di guerra tra cui Libano, Afghanistan, assedio di Sarajevo, Kosovo, Eritrea, Somalia, Iraq, Ruanda, Vietnam. Ha partecipato a spedizioni scientifiche in Antartide, Polo Nord e Himalaya. Numerosi i premi ricevuti, tra cui quello dedicato a Ilaria Alpi/Hrovatin. Membro di Reporter Sans Frontieres e dell’Associazione dei Giornalisti Europei. Ancora oggi lavora come documentarista freelance, seguendo problematiche ambientali e sociali. Ha pubblicato il libro “Dietro l’obiettivo, un uomo”.

E proprio quest’uomo, timido, schivo e volte sfrontato si racconta in un libro intervista a Francesco Vitali Gentilini - giornalista, esperto di comunicazione, di studi strategici, della protezione dati e dei big data, ora è nei ruoli del Garante per la protezione dei dati personali, nonché autore di numerosi saggi e articoli in tema di privacy, nuove tecnologie, guerre di comunicazione e geopolitica - svelando piccoli particolari e debolezze di grandi leader e personaggi, della professione giornalistica, di se stesso. Una professione, si legge nella biografia, quella di cameraman e fotoreporter, che l’ha costretto ad essere, spesso per primo, ‘sul posto’, raccogliendo testimonianze di terremoti e viaggi spaziali, attentati terroristici, guerre e carestie, incontri sportivi e teatrali, eventi storici, incluso quello tra Ronald Reagan e Michail Gorbaciov a Reykjavík. Meglio una cosa vista che cento raccontate il suo motto!

“Le immagini non mentono quasi mai”, il titolo accattivante e che induce alla riflessione su uno strumento potente e da maneggiare con coraggio e con cura. Nel sottotitolo il senso dell’opera “Storie e cronaca in 151 paesi, attraverso gli occhi del videoreporter Rai, Claudio Speranza”. Con la prefazione di Nuccio Fava. Ai due “corresponsabili” di questa testimonianza, di questo racconto di parole e soprattutto di immagini che si fanno anche parole, abbiamo inteso porre qualche domanda per caprirne sino in fondo l’idea, l’intuizione, il risultato che come ogni immagine dovrà essere vista per poter essere apprezzata e conosciuta.

Il primo a rispondere, il protagonista, Claudio Speranza.

Come definiresti l’equilibrio instabile tra la ricerca e la casualità del tuo lavoro. Cosa vuol dire essere testimoni diretti di qualcosa che sovente soltanto in un secondo tempo manifesta tutto il suo valore e il suo peso sulla vita degli uomini?

Due fattori che troppo spesso vengono visti come alternativi. La capacità del giornalista è renderli parte dello stesso obiettivo: trovare la notizia. La casualità aiutata anche da un po' d'intuito posso riferirla alla tragedia di via Fani dove arrivai seguendo le auto della polizia. Per la ricerca è stata pensare di entrare nel lazzaretto dove venivano lasciati morire i bambini-soldato di Kigali in Rwanda dove entrai di mia iniziativa per denunciare una realtà orribile.

Nella tua azione di descrizione del mondo per immagini quali sono i sentimenti che ti hanno accompagnato?

Ogni situazione potrebbe avere una risposta diversa. Ho sempre cercato di lasciarmi guidare da quello che raccontava Ryszard Kapuscinski, giornalista e scrittore polacco, quando diceva: un bravo giornalista deve essere buono, perché se non sei una persona buona non puoi capire il dolore degli altri.

Come si fa a riprendere e immortalare momenti di storia, che cosa si prova nel momento in cui si scatta o si riprende. Quanto dell’avvenimento caratterizza lo scatto, quanto invece la consapevolezza di riprendere qualcosa di eccezionale!

L'ho spiegato in una risposta nel libro a Francesco Vitali Gentilini, nel momento in cui si sta riprendendo un fatto importante si è concentrati su ciò che si sta facendo, al fatto che passerà alla storia ci si pensa dopo a mente e cuore rilassati.

Il tuo lo definiresti un lavoro, una passione, una missione? Comunque una scelta di vita e per la tua vita?

Il mio non l'ho mai considerato un lavoro ma una passione che mi ha avvicinato alla missione da compiere. Certamente per me è stata una scelta di vita.

Quale vorresti fosse il ricordo più importante che scaturisse dalla tua opera ai quattro angoli del mondo? C’è un filo conduttore?

Il filo conduttore dei miei reportage in giro per il mondo è stato sempre mostrare realtà anche se poteva costare sacrifici e a volte anche qualche rischio. Questo deve fare un giornalista e così un cinereporter, non voltare lo sguardo dall’altra parte della storia.

Con Francesco Vitali Gentilini abbiamo condiviso alcune “riflessioni” per comprendere la sua intuizione di raccontare la vita e il lavoro di Speranza.

Il tuo lavoro sul fronte della privacy e della riservatezza sembrerebbe in contraddizione con quello di Speranza che spesso porta in evidenza situazioni, persone, vicende, che secondo le regole dovrebbero spesso essere coperte e protette. Che cosa ti ha spinto a questo confronto, a questa narrazione di una sorta di altro da te?

In realtà proprio il lavoro di Claudio Speranza mostra che il racconto giornalistico - anche quando si confronta con le vicende più crudeli della cronaca nera, del terrorismo, della guerra - non è in contrasto con il valore della riservatezza e della protezione dei dati. Il diritto alla privacy e quello di cronaca sono alla continua ricerca di un equilibrio, con un fondamentale punto di contatto: il rispetto della dignità umana. Claudio Speranza, durante il suo percorso professionale, ha saputo anche spegnere la telecamera o non indugiare sui particolari più scabrosi quando non era necessario ma, al tempo stesso, ha messo varie volte in gioco la propria vita per portare a lettori e telespettatori testimonianza diretta di quello che stava accadendo, anche in luoghi lontani. Speranza rappresenta la sfida quotidiana che ogni bravo giornalista deve affrontare per rispettare il proprio codice deontologico, non inteso come carta burocratica da conoscere per sostenere l’esame di Stato, ma come faro dei principi fondamentali che devono essere tutelati per far bene il proprio lavoro, e rimanere a posto con la propria coscienza.

Le immagini ormai rappresentano quasi la totalità dei messaggi che le persone si scambiano, la parola sembra relegata ad una funzione supplente, quasi romantica della comunicazione. Come vedi questo difficile e complesso rapporto?

Le immagini arrivano dirette al cuore e alla testa, con meno mediazioni a livello razionale e in un tempo molto più breve di quello necessario alla comunicazione scritta o parlata. Questo fenomeno è attribuibile principalmente alla modalità di funzionamento del cervello umano, ai processi cognitivi che ci aiutano nell’elaborazione delle informazioni. Questo aspetto, d’altra parte, non riduce l’importanza e il ruolo della parola, del ragionamento ad essa sotteso. Non dimentichiamo che nel corso dell’evoluzione umana, uno degli elementi che ha consentito il successo della nostra specie rispetto a quella di altri animali è stata proprio la nostra capacità di sviluppare un linguaggio elaborato, sia nelle sue forme orali che, in seguito, in quelle scritte. Un servizio filmato, senza la parte narrata, nella maggior parte dei casi risulta più debole dello stesso filmato accompagnato da parole che offrono una chiave di lettura, un filo interpretativo coerente. La parola ha quindi un’azione probabilmente più lenta e meno diretta, ma non per questo risulta meno importante.

Perché come dici nel titolo del tuo libro a quattro mani con Speranza, le immagini non mentono quasi mai e sottolinei scientemente quel “quasi” richiamando l’attenzione proprio su questo?

Quel “quasi” è importante e aiuta a sottolineare che un’immagine non possa di per sé essere sufficiente a rappresentare la verità, neppure la cosiddetta “verità putativa” del lavoro giornalistico. Lo sa benissimo Claudio Speranza che ha posto le immagini fisse e in movimento al centro della sua vita personale e professionale, lo sanno gli operatori del settore, ma è bene che questo aspetto sia sempre al centro delle riflessioni nostre e di tutti i lettori, inclusi quelli che conoscono bene il mondo della comunicazione. Una volta poteva si poteva cambiare un’inquadratura per modificare il senso della realtà, o manipolare un’immagine in post produzione, o spacciare immagini false scattate in luoghi diversi. Oggi, nell’era delle fake news e, soprattutto, delle tecnologie per i deep fake - che consentono di falsificare con facilità video e suoni - questo piccolo ma sano dubbio deve essere ben impresso nella mente di tutti, per poter valutare con attenzione quello che vediamo, o che crediamo di vedere e sentire.

Oltre l’amicizia personale fortificata dalla fatica letteraria che cosa nel lavoro di Speranza ha colpito la tua attenzione. Qualche aneddoto per indicarci una strada di maggior comprensione?

Più che dal lavoro egregio, sono stato colpito dalla sua personalità che, d’altra parte, gli ha consentito di lavorare a livelli incredibili, operando in quasi ogni Paese del mondo. Claudio combina grande umiltà e timidezza a un’incredibile forza d’animo, e a una durezza quasi granitica. È sempre stata una persona alla ricerca di qualcosa, con coraggio e umiltà, sin da bambino, quando ha lasciato la scuola per arruolarsi in Marina, per poi percorrere la strada del cameraman e del telecinereporter. Queste caratteristiche gli hanno consentito di incontrare tutti i grandi della Terra come si incontra un artigiano per strada, senza essere travolto, come tanti colleghi, da una sorta di delirio di onnipotenza; gli hanno anche consentito di attraversare momenti di grande solitudine in Antartide e di guardare in faccia la morte in tanti teatri di guerra, mai mettendosi inutilmente a rischio con scelte incoscienti. Ho scritto moltissimi aneddoti su Claudio e di Claudio nel libro, di cui consiglio in effetti la lettura a chi è incuriosito dalla storia italiana e mondiale degli ultimi decenni. Alcuni li terrò solo per me, rispettando la sua volontà di riservatezza che ho messo varie volte alla prova con le mille domande che gli ho sottoposto”.

Una chiosa per sottolineare come il binomio tra immagine e parola, al di là del comune intendere e della vacuità inflazionata, costituisca sempre e comunque il mezzo per controbattere proprio quel “quasi” sul quale si è voluto porre l’attenzione e non a caso!