Oggi è sabato 28 ottobre ed emotivamente confondo spesso il sabato con la domenica. Per quanto il quartiere è pieno di caos al mattino - abito vicino al mercato grande - al pomeriggio ritorna il silenzio dei giorni festivi. Scrivo in terrazzo, qui a casa, e siccome in questi giorni c’è stato un vento forte l’aria è tersa. Il cielo è di un azzurro intenso striato da nuvole bianche piene di luce e io mi perdo nella contemplazione dei ricami che le nuvole formano con i rami degli alberi ancora pieni di foglie. Nella visione del cielo e degli alberi mi ricarico e prendo nelle mie mani quei pensieri che continuamente mi percuotono la mente - per questa ragione risulto distratta e combino guai. In realtà sono sempre altrove.

Ora penso all’Evento al PopUp in Darsena con sensi di colpa di grande portata perché mi sono lasciata governare dalla paura. E come in questo caso, quando entra in gioco la paura è lei che prende e cancella grazia e bellezza. La paura è lutto della mente e porta con sé il dolore. Quel pomeriggio del 21 ottobre, se non fosse intervenuta la paura, avrei realizzato il mio capolavoro. Capolavoro è una parola grossa che si usa spesso impropriamente. Per ottenere la perfezione era necessaria una sorta di comunione tra le Azioni realizzate in modo perfetto, il tempo e lo spazio; tutto questo per creare un altro mondo. Un altro mondo con la rarefazione e l’essenzialità di questo microcosmo tra la via dell’acqua e la terra-ferma, con la sua luce illuminata in un altro modo. In un certo senso nel capolavoro il meglio di sé coincide con il meglio sulla terra. E per realizzarlo avevo tutto nelle mie mani: luogo, sassi, frammenti di terracotta, cielo, amiche ed amici - artisti erranti - sempre disposti a fare miracoli e Valentina, Andrea, Riccardo, Sofia, perfetti e concentrati nella realizzazione di Azioni particolarmente complicate e ripetitive.

Avevo il luogo

In Darsena di città c’è, come in tutti i luoghi dove mi piace stare, ancora per poco, il PopUp, un luogo di ritrovo e di libertà formato da diversi container e da altrettanti spazi attrezzati per giochi sportivi, utilizzati quotidianamente da bambini e da ragazzi. In uno di questi c’è un rettangolo di sabbia. Ci arrivo in bicicletta, la strada separa l’acqua - acqua che non si vede ma si sente - entro da un grande cancello e la sabbia è subito lì. Mi siedo in una pedana di legno dove ci sono tavolini e, più nascosto, un bar, dove vado a prendermi un caffè o un aperitivo a seconda dell’ora, e se non voglio nulla nessuno viene a disturbarmi. Difronte a me, in strada, biciclette e monopattini, più lontane facciate di palazzine, lo scheletro in legno di una vecchia fabbrica che ricorda un tempio greco e il cielo. È questo il luogo adatto ad accogliere il tetrattile che viene dal luogo degli dèi e contiene il sole e la luna, e la lumaca simbolo ed elogio della lentezza.

Avevo i sassi

Da tempi lontani, nel terrazzo riposano, ma il mio sguardo non li abbandona, pietre, sassi, e frammenti di una scultura in terracotta, del mio amico Maurizio. Il tempo li ha segnati e modellati ancor prima delle tavole di Mosè. È da tempo che li coltivo. Ho anche la pietra delle antiche scritture ritrovata nel fondale dell’isola rossa a Rovigno, sassi raccolti in riva al fiume e ultimamente, dopo la fiumana, in riva al mare. Per strada, fotografo la mia ombra fatta di sassi. Ne ho ovunque, in cantina, in terrazzo, nelle sacche della bicicletta, nella borsa e al mattino, i miei preferiti, li ho con me, sul tavolo della colazione. Nel 2021, ho pensato di realizzare nel terrazzo dello studio, a mosaico, con quelle pietre, quei sassi e quei frammenti di terracotta e con l’aiuto di Edoardo, un tetrattile, con sole e luna, per sorprendere amiche e amici nella festa dei miei 80 anni - sono tanti, ma ne ricordo pochissimi.

Avevo le Azioni

Alle 15.30 è partita la Prima Azione: arrivano in bicicletta Sofia, Valentina, Andrea, Riccardo, si tolgono le scarpe, entrano in scena e da quel momento, per tre ore, con una concentrazione assoluta e con il volto fisso a terra dovevano costruire e poi smontare, per poi ricostruire e di nuovo smontare, sempre in quel piccolo rettangolo di sabbia, lo stesso tetrattile, fino all’’esasperazione - non la loro, ma di chi eventualmente osservava - per poi arrivare a ricoprirlo tutto con gesti violenti.

Avevo il cielo

All’inizio c'era il sole, lentamente poi, il sole ha ceduto il passo a nuvoloni sempre più scuri e minacciosi. Attacco di panico mio, loro quattro continuavano imperterriti sempre concentrat* a togliere, aggiungere, spostare sassi; costruire e smontare, costruire e smontare. Alle 17, con le prime gocce ho detto a Sara, in quel momento impegnata nel fotografarli, di avvicinarsi e avvisarli di concludere passando all’azione della distruzione. Loro avrebbero continuato anche con la pioggia, sono più coraggiosi e appassionat* di me. E soprattutto non hanno paura, sicuramente non hanno paura della pioggia. Le inondazioni di maggio invece a me hanno lasciato paura della pioggia, del vento, della siccità, del caldo, del freddo che non arriva.

Inoltre, il desiderio di portare a termine il lavoro sarebbe stato premiato perché ha piovuto pochissimo e poi è arrivato un tramonto rosso, inquietante, da fine del mondo. Sarebbe arrivato in scena e come estremo promontorio dell’anima, avrebbe avvolto e trasfigurato cose e persone. Ho visto sorgere una luce rosa che ha illuminato l’aria intorno. E io sola, seduta di fronte alla scena vuota, ho pensato a ciò che la paura mi ha portato via. Lo smarrimento è tutto in me. Non mi si è instupidita la mente - quella c’è e galoppa troppo velocemente - ma l’anima, che non può vivere nella paura. Con il sentire, con un sentimento potente, avrei rischiato e quel tramonto inquietante, avrebbe raggiunto, con i suoi lampi di fuoco, il luogo del capolavoro. Anche la natura, con le sue metamorfosi, se mi fossi abbandonata con più coraggio, avrebbe donato all’evento la scena perfetta, da protagonista.

In questo tramonto agiscono cose grandi e io mi sento più vecchia delle pietre.