Finalmente decisi di mettere insieme i miei scritti. Iniziai quasi di getto (non di certo di “gettito”).

Anzitutto, scrissi l’introduzione che troverete, più o meno fedelmente riportata, di seguito: “Scrivere una nota autobiografia per uno scrittore sconosciuto non è il massimo. Non si hanno punti di appiglio, riferimenti universali. Potrebbe non avere appeal la storia del signor Nessuno. Svelo il trucco: se non v’interessa chi sono, proverò a raccontarvi chi potrei essere. E credetemi, non è roba da poco!”

Quando iniziai erano all’incirca le tre di notte e ad osservarmi c’era a malapena un lembo di luna sbiadita e sbadigliante. D’altronde non conoscevo altro orario per dare sfogo alla mia creatività. Eppure non era insonnia, anzi, scrivevo nonostante tedio e torpore galoppanti: credo si trattasse di sonnambulismo vero e proprio. Ma bando alle ciance (ciancio le bande), ecco come proseguii:

“Sarò Franco. In tutta sincerità.

Sarò Franco. Anche se a dire il vero, almeno per ora, sarei Vito”.

Bene. Ora che vi ho confuso sufficientemente le idee, posso iniziare a narrare quella che sicuramente è la più bislacca tra le avventure mai capitatemi: l’esistenza.

Anzitutto, le presentazioni: sono un qualsiasi imperfetto terrestre, il mio nome è Franco Pantalena. Ho appena asserito di chiamarmi Franco, et voilà: primo colpo di scena, in realtà mi chiamo Vito. O meglio, mi chiamo Franco (stando alle istituzioni), ma tutti mi chiamano e mi conoscono come Vito. In realtà, però, avrei dovuto chiamarmi Pantalena Franco virgola Vito (avessi detto: Cavalier Gian Maria Luchino Massimiliano Umberto Pantaleo Pantalena nonché principino del casato degli Alberti ed erede al trono di Spagna sotto il nome di Pantaleo IV). Ciò almeno stando a quanto mi raccontano sin dalla mia più tenera età.

Ma cominciamo con ordine col narrare una storia che si perde nella notte dei tempi. Una volta schiusasi la primavera, nacqui. No, così non va, troppo para-poetico.

Vediamo un po’… Ecco, ci siamo… Diario di bordo: correva l’anno 1983, mese terzo, giorno ventiduesimo (nascere il ventidue e in marzo per giunta! Scherzi della cabala, il giorno dei pazzi; e inoltre nel mese pazzo per antonomasia).

Come il più classico dei protagonisti dei film horror ero ignaro di ciò che stava per accadere… di lì a poco si sarebbe compiuto il misfatto. Subito dopo avermi “prodotto”, mio padre si arrovellò il cervello, come si è soliti fare in quelle occasioni, per assegnarmi un qualsivoglia nome. Piccola divagazione sul tema: assegnare un nome al Sud non è affare dappoco, in quanto, gli antenati sperano nel dono dell’immortalità, grazie al passaggio del proprio nome ai successori, manco fosse un titolo nobiliare. Fino a qualche anno fa non marchiare la progenie con l’etichetta dei genitori era considerato il sacrilegio dei sacrilegi. Sì, ma quale dei genitori-nonni premiare? Proprio per evitare una guerra di religione, proprio quando ormai sembrava quasi insperato, giunse l’armistizio: avrei continuato la storia non di uno ma di ben due “casati”. In sintesi: mi affibbiarono due nomi.

Il problema sembrerebbe risolto ma il fattaccio, in realtà, non si era ancora compiuto, di lì a poco il destino beffardo avrebbe agito… Il mio luogo d’origine è Vietri di Potenza, un ridente (chissà perché si dice così...) paesello di collina e conta all’incirca tremila anime (i corpi sono già da tempo fuggiti per la disperazione!).

Il paese che mi diede i natali è in realtà Polla, in quanto, non essendo la mia amata Vietri dotata d'ospedale, i fanciulli nascevano-nascono-nasceranno altrove.

Sin qui niente d'entusiasmante, infatti, tutto segue alla perfezione la ricetta: prendete due gameti di segno opposto. Fatto? Fondeteli (questa volta senza abbondante colla vinilica, mi raccomando!). Fatto? Pazientate per circa nove mesi e anche voi, rinfacciando l’esistenza a quel pargolo indifeso che, dapprima vi scruterà, poi, quasi subito vi maledirà, potrete affermare con tono solenne e baudiano: “T’ho inventato io, t’ho inventato!”. Potenza del bricolage!

Più o meno, ciò accadde anche nel mio caso. Più o meno? Più o meno! Non tutto andò proprio per il verso giusto; infatti, a nascita avvenuta, la prassi prevede che il pargoletto sia iscritto all’anagrafe (altro che ballo delle debuttanti, questo è entrare in società!). Anche questo step fu superato alla grande e il mondo mi accolse come Pantalena Franco, Vito. L’accordo, però, fu siglato in Polla (SA), ma l’iscrizione doveva avvenire presso il comune di residenza: Vietri (PZ). Così fu, ma solo in parte. A Vietri giunsero solo i resti della mia identità, infatti, “,” e “Vito” si persero per strada.

Poco male, direte voi, ti resta sempre Franco come nome. Già, facile! Macché! Al Sud amiamo rendere le cose complicate, più di quanto già lo siano…

L’età adulta, adultera già lo era, mi venne in soccorso allo scoccare del trentesimo anno. Il discernimento, finalmente! Avevo capito come erano andate le cose: non c’era stato nessun errore all’anagrafe.

Padre: finse l’errore per affibbiarmi il nome della sua genitrice;

Madre: finse di bersela.

Madre chiese: “Come mai il bambino è stato registrato col solo nome di Franco?”.

Padre rispose: “Avranno sbagliato…”.

Ma si sa, una donna sa attendere, ed è ben noto anche che un bambino, al Sud, negli anni Ottanta, cresca con la madre. Quindi, ben presto, sarebbe stato riproposto, questa volta da mio padre a mia madre, l’interrogativo: “Come mai gli altri chiamano il bambino, Vito?” Medesima laconica e primigenia risposta: “Avranno sbagliato…”.

Ora, comprendo e in parte condivido la sete di vendetta della genitrice, occorre, però, ammettere che la scelta difetta di lungimiranza: come spieghi ad un bambino che, nonostante tutti lo chiamino “Vito”, il suo nome è “Franco”? Non si rischia di causargli una scissione della personalità? Eccone, verosimilmente, le risultanti: io mi chiamo Franco, ma mi chiamano Vito, tu puoi chiamarmi come vuoi, ma gli altri mi chiamano Vito, io però mi chiamo Franco.

Daccapo.

Ciao, sono Franco; sì, è vero che quella ragazza poco fa mi ha chiamato Vito, ma sono Franco; e non dirmi che sono un bugiardo, ho detto che sono franco. Di nome e di fatto. Per farla breve, per me fu l’anticamera della schizofrenia: Io sono Franco, Vito. Chi è “Vito”? Chi è “Franco”? E “Virgola”? Tre matti in un colpo solo.

È pur vero che questo sadico gioco/giogo, pur non sapendo se mai avrà una fine, quantomeno aveva un fine: far sì che io imparassi a firmare con il mio vero nome senza correre il rischio di invalidare documenti su documenti. “La burocrazia è già brava di suo a rendersi complicata e inestricabile, non ha bisogno alcuno del nostro aiuto!”, parevano dirmi i miei genitori. Infine, vorrei rivolgere un accorato appello a tutti i genitori di questo mondo: prima di scegliere un nome pensate bene anche alle conseguenze. La vita è già complessa di per sé, non trasformiamola necessariamente in un complesso complesso di complessi. Quasi dimenticavo! Non sono figlio unico, ho una sorella. Come si chiama? Pina. Tutto qui? Certo che no! In realtà il suo vero nome è Mariagiuseppina (tutt’attaccato!). Mia madre, invece, si chiama “Carmela”. All’anagrafe. Tutti i giorni, la chiamano “Pasqualina”…

Occorre che vi spieghi come sono andate le cose?

Sarò Franco, ma siatelo anche voi!