Seduta su una panchina ad osservare il mare, l’amarissimo Adriatico.

Il suo colore oggi è decisamente diverso da quello che spesso mi capita di vedere su delle cartoline esposte, a pochi passi dalla costa, sulle instabili bancarelle di qualche località turistica.

Il mare oggi, qui ad un metro dal mio corpo è nero e sembra essere animato dai miei tormenti.

Dall’altra parte l’Albania. Il mare, quando l’osservavo da piccina, tingeva la mia visuale d’azzurro, disteso innanzi ai miei occhi come immacolato manto di una gradazione compresa tra il celeste ed il turchino, e non faceva freddo come oggi.

Alzo gli occhi.

Un gabbiano volteggia solo in cielo. Mirando le sue lunghe ali sposto lentamente la mia visuale. Lo vedo raggiungere lo stormo, trascorrere per l’aria con loro rincorrendosi vicendevolmente, finché il mio gabbiano, quasi esitando, si allontana dagli altri ed isolatosi, si dirige in alto fino a spingersi verso la città ed i suoi alti palazzi.

Vorrei ascoltare meglio il suono del mare, vorrei che da qualche dove giungesse una risposta ai tanti dubbi aggrovigliati nei meandri della mia coscienza. Vorrei si spegnessero i motori di queste assordanti auto che, passando a pochi metri dalle mie spalle, lasciano il puzzo dei gas di scarico e di gomma per i troppi chilometri bruciati. Ma tutti per vivere dobbiamo lavorare e per lavorare bisogna che queste macchine siano azionate e corrano inesorabilmente, senza tregua, talvolta contro ogni ritmo naturale e fisiologico, influendo negativamente e travolgendo, ogni giorno, vite di uomini, con dinamiche differenti; portando negli abissi la vita di civili abbattuti da scosse e macerie.

Ed è proprio in un oceano di infauste notizie, che, quotidianamente, vagano verità angosciose perse in un iperbolico vortice di ipocrite scuse, che inondano pagine e pagine di giornali, e di tanto in tanto quelle offuscate verità affiorano in goccioline luccicanti sulla fronte bagnata di gente affannata alla ricerca di danaro per sfamarsi, curarsi, pagare le tasse; ogni tanto quelle offuscate verità riemergono e fuoriescono dagli occhi, irrigando volti arsi dal dolore.

Il lavoro oggi in Italia, nella maggior parte dei casi, è solo quello a cui sottoponiamo il nostro corpo, le nostre menti, per determinare l’affermarsi di una civiltà tutt’ora primordiale e la confisca dei sogni.

A poche settimane dal Natale, a distanza di pochi giorni dai numerosi panettoni rigurgitati, dalle bottiglie di alcolici prosciugate per brindare ad un florido 2020, e dai raduni famigliari attuatisi obbligatoriamente e non per consuetudine, avrebbe dichiarato, prima della sua conversione, l'arido e tirchio Ebenezer Scrooge: “Che cos’è il Natale se non un giorno di scadenze quando non si hanno denari? Un giorno in cui ci si ritrova più vecchi di un anno e neanche un’ora più ricchi.”

Sospiro. Il mare diventa solo un lontano ricordo dell’estate bramata e vissuta.

Eppure il Natale non solo torna ogni anno insieme all’inverno rigido, ma dovrebbe echeggiare ogni istante, in ogni respiro, come un raggio di amore che spunta nel gelo del rancore e dell’egoismo e invita a sorgere.

Ogni giorno è Natale, ogni giorno è un giorno buono per poter rinascere e incamminarsi, gattonando come fossimo bimbi, verso l’Eterno, per donarci la salvezza.

Il mio cuore lotta per rimanere incontaminato in una società ormai concettualizzata, ed i miei polmoni prendono aria da cieli neri, dove circolano verità di cemento, anime sfocate rivestite da cellule, tessuti, organi sintetici, macchine d’avanguardia e numerose assordanti ambulanze imboccanti, corsie preferenziali dirette lungo ogni personalissima Stairway to Heaven, l’unica pista percorribile per trovare un immediato rifugio, pace nel cuor; corsie preferenziali, che indicano la via da attraversare sopra Madre Terra, questo stesso vecchio suolo che noi tutti abitiamo.

Un pescatore ha appena tirato fuori dall’acqua un octopus. Chi avrebbe supposto che questo mare così grigio nascondesse bizzarre soggettività viventi!

Levo i miei occhi al cielo. V’è una parte in cui le nubi stanno iniziando a discostarsi.

Inaspettatamente un raggio di sole mi riscalda le spalle. Ne traggo beneficio fisico. Poi, sulla costa, anche i gabbiani si riuniscono in gruppo, camminano sugli scogli insieme, volano uniti, battendo lentamente le ali e poi, tenendole ferme, aperte, si lasciano portare dall'aria ed alle volte, si posano sul mare, lasciandosi trasportare dalle onde. La Terra continua a tremare e a noi non resta che l'umanitá, la speranza, la volontà d’aiutarci l'un l'altro.

Veglio! Issata la bandiera sopra le macerie, con questo calore nell’anima ci prendiamo cura delle parti della nostra esistenza rimaste congelate dall’ipocrisia e proviamo, ansimando, a liberarci da tutto ciò che addormenta, incatenandoci in un limbo di trivialità violenta. Cerchiamo i modi per farlo, ogni istante, ponendo la luce davanti ai nostri passi, vivendo nell’attesa.

Nel chiasso gelido e truce, flebile, si svelerà nell’aria la primavera. Dentro l’inverno la promessa della rinascita sposterà le montagne, nembi, come un figlio nel ventre di una madre pulsando nello stomaco allo stesso modo di farfalle svolazzanti, accarezzandone, inebriate, in volo, le pareti della pancia, ne solleticano ed elevano l’anima.

Il Laurus Ridibundus, il mio gabbiano esploratore, ancora una volta radunatosi agli altri, emette il suo strillo. Questo nome gli è stato dato a causa del suo particolare verso, che sembra una risata. A me piace pensare che l’amore ricevuto dai suoi compagni venga ricambiato donandolo al mondo sottoforma di quel particolare garrito.