Quella sera le sue gambe incrociate formavano uno spigoloso angolo. Ai miei occhi sembrava stessero disegnando un'ombra attorno alla sua figura: una sagoma, un uomo dalle sconosciute sembianze. Io avevo delle ciocche di capelli tinte di un colore osceno, simile al rosso fuoco, ed indossavo un abito lungo e nero. Lo ricordo benissimo. Un ubriaco canticchiava qualche inno in una strana lingua, forse in russo. Bottiglie di vetro fracassate a terra, randagi che rovistavano nella spazzatura e disperate richieste d'aiuto incise sui muri. Uno scenario apocalittico, tipico di una sabato sera tra ragazzini.

Potessi tornare indietro, riavvolgerei il nastro di quella che fu la mia vita ma, forse, per alcuni viaggi, il tuo posto in carrozza è già previsto; devi stare seduto a lato, sentire le ruote sotto di te, i lamenti del treno. Devi sentire i suoi gemiti. Se potessi davvero riavvolgerlo questo nastro, scriverei probabilmente la stessa storia, quella che ora vi racconto, modificandone solo un po' la trama. Una storia fatta di corse dove, se ti distrai a guardare il paesaggio, inciampi disastrosamente. Una storia scritta a quattro mani ma solo con le mie sempre sporche d'inchiostro.

“A volte li rivedi ma ti danno le spalle”. Vorrei tanto dirglielo, ancora adesso, che mi scrivevo sulle braccia, su qualsiasi centimetro della mia pelle e che lo facevo per esorcizzare il dolore. Il dolore era diffuso ovunque.

Il mio treno è un vagone vuoto. Un solo vagone scollegato dagli altri dove la luce, quando penetra, mi fa vedere le cose per come sono: definisce i volti, scolpisce quei profili così diversi da come la mia mente li aveva disegnati. Il ritratto perfetto dei miei compagni di viaggio. Conta l'immaginazione quando ci si innamora? Si parte per una destinazione solo quando si hanno le idee chiare su dove andare oppure non è così?

Sono salita su un treno senza conoscerne la tratta. Ho lasciato tutto a casa, portando con me una valigia piccolissima in cui ero convinta di poterci ficcare il mondo dentro. La mia valigia pesava tantissimo. Così piccola e così pesante. Così ingombrante. Ho caricato il macigno sulle spalle senza fiatare e sono andata verso il mio binario quasi fuggendo. Ho stretto al cuore le poche cose che avevo: di tutto il resto sentivo di non averne bisogno. Una madre, la mia migliore amica e la penna; tutto questo era per me più che sufficiente.

Quando sono scesa dal buio vagone che mi aveva ospitata, mi è stato chiesto quale follia mi avesse spinta fin lì. Se desiderio, curiosità o spirito d'avventura - ho destato sempre molta curiosità tra gli astanti -. Ho risposto che certe mete non si scelgono e che certi istinti si assecondano e basta.

La città dove misi piede era piena di salite e vicoli stretti e pensai che, in fondo, non avrei mai potuto sapere cosa c'era in cima se non mi fossi decisa a salire per visitarla. Convenni quindi sul fatto che ne valeva la pena perché sarei potuta tornare indietro, se solo l'avessi voluto.

M'illudevo che certi luoghi potessero restare sempre lì, intatti, dove tu li hai scoperti, disposti ad accoglierti sempre come se fosse la prima volta. Durante il viaggio può succedere invece che le città si trasformino e così l'ambiente che ti circonda improvvisamente ti opprime e ti soffoca. Non lo riconosci più. Non più braccia spalancate ma mani al collo, può succedere anche questo quando viaggi senza conoscere la meta.

Il mio obiettivo era salvare il cuore. Avrei fatto di tutto per quel mio cuore depresso. Più amavo più regredivo, realizzai. Più amavo, più impazzivo. Come se l'amore ti tramutasse in un essere completamente diverso da te, lontano mille miglia da ciò che sei. Diverso da cosa poi? Un grosso ammasso di carne, un muro che nessuno scavalca, un essere curioso ma per nulla interessante.

Scrivo mentre dalla finestra vedo due bambini litigare. Disegnano arabeschi nell'aria e, oltre le loro braccia, intravedo il mare.

C'eravamo soffermati a lungo sul mio corpo, ricordi signor Bad Eyes? Ero diventata la tua bambolina dal corpo di marmo. Rotta, senza gamba, sporca, rossa, enorme, senza faccia. Proprio un pezzo di marmo, anonimo e freddo. Misuravi in centimetri il mio girovita e non ti sfuggiva nulla mentre disegnavi ossessivamente la mia sagoma.

Il treno dove sono salita è un'autostrada asettica, il mio amore un sacrificio a senso unico. Questa sera un dj passa della musica dark in un locale sottoterra. Un suono impercettibile eppure violento per le nostre sorde orecchie. Incrocio il tuo sguardo che tieni basso perché non reggi il mio. Prima il rumore, poi l'abisso. E ti racconto, occhi negli occhi, il mio irrefrenabile e infantile bisogno di essere ascoltata.

Mentre scrivo, mi accorgo che mi risulta ormai impossibile formulare frasi di senso compiuto. Sarà perché lui mi ha spezzata e ricostruire ciò che è stato significa fare un po' a cazzotti con i ricordi. Provo comunque a riavvolgere il nastro. Apro il mio libro e torno indietro. Temevo di non riuscire mai più a scrivere, fino a qualche mese fa.

Continua il 29 Gennaio.